Botte di Vino

Il Nero Buono di Cori

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Nero Buono di Cori

“Figli di un vitigno minore” fa tappa oggi nel Lazio e precisamente a Cori, 45 km a sud di Roma a ridosso delle pendici dei Monti Lepini, nella provincia di Latina.
Nero Buono, infatti,  vuol dire Cori da sempre!
Questo autoctono laziale dalle origini sconosciute, a torto considerato un vitigno “minore” e quindi spesso dimenticato, è coltivato quasi esclusivamente all’interno del territorio del comune di Cori, per questo è ormai noto come il “Nero Buono di Cori”.

La storia vitivinicola di questa zona è praticamente millenaria come è confermato dai numerosi ritrovamenti di reperti georgici latini risalenti al periodo dell’ insediamenti dei Volsci (V sec a.C.).

Nel Medioevo, con la caduta dell’Impero Romano e la fine delle invasioni barbariche, la viticoltura in queste terre, nonostante i danni subiti, non perse la sua continuità con il passato e mantenne sempre un ruolo importante, come testimoniano i documenti di varia natura conservati presso gli archivi monastici.

La coltivazione della vite ebbe grande espansione anche durante il periodo dello Sato Pontificio: Giuseppe Marocco, in “Monumenti dello Stato pontificio e relazione topografica di ogni paese” (1835), scrive riferendosi alla cittadina di Cori “le sue vigne sono con bell’industria agraria coltivate, esquisiti sono i suoi vini”.

La storia dell’ultimo secolo è caratterizzata da un’evoluzione positiva della denominazione (che nel 1971 diviene ufficialmente una DOC), con l’impianto di nuovi vigneti, la creazione della Cantina Sociale, la nascita di nuove aziende che, unite alla professionalità degli operatori, hanno contribuito ad accrescere il livello qualitativo e la rinomanza dei vini di Cori.

E’ proprio grazie al contributo della zona di Cori se la provincia di Latina è, oggi, uno dei principali produttori vinicoli del Lazio.

Territorio e Clima

Siamo in provincia di Latina dunque, ovvero l’areale posto a nord-est dell’Agro Pontino e alle pendici nord-occidentali dei Monti Lepini.

I suoli sono composti da rocce sedimentarie di origine marina (calcari e dolomie) e vulcanica.

Eventi effusivi, eruttivi, esplosivi succedutisi negli ultimi milioni di anni hanno reso molto articolato il paesaggio che appare dunque composto da lingue di terra lavica di riporto e vulcani avventizi nelle quote più alte dell’apparato vulcanico dei Monti Lepini, con diverse formazioni carsiche.

I suoli sono molto ricchi di ossido di ferro (ossidazione dei calcari) e delle c.d. “terrinelle” ovvero ceneri vulcaniche con sabbie gialle, scheletro calcareo, argille azzurre e grigie e terre rosse con un elevato grado di permeabilità dell’acqua.

Scendendo verso l’Agro Pontino (terreno paludoso, bonificato agli inizi del ‘900) si ritrovano invece i sedimenti marini, alluvionali ed eolici di epoca pleistocenica e olocenica.

Il clima si caratterizza per le correnti cariche di umidità provenienti dal mar Tirreno che arrivano a scontrarsi con quelle montane dei rilievi Lepini, mentre le acque sorgive nutrono i terreni di origine vulcanica: un ambiente ideale per tutte le colture, con estati calde, autunni freschi e forti escursioni termiche durante il periodo di maturazione delle uve.

Questo microclima permette inoltre di ridurre il rischio di peronospora a cui il Nero Buono è piuttosto sensibile.

Il tutto si completa con la posizione dei vigneti (mediamente intorno ai 350 metri slm), che favorisce l’ottenimento di uve di qualità ed una loro produzione abbastanza consistente.

La leggenda

Parlando di vitigni “minori”, dalla provenienza ignota e dalla diffusione limitata, accade spesso che i vuoti storici siano coperti dai racconti popolari o meglio ancora da leggende e mezze favole che si perdono nel tempo.

Il Nero Buono non fa eccezione e per lui ne esiste una particolarmente suggestiva e molto antica.

Si narra infatti (ma non esistono evidenze certe) che fu un noto patrizio romano, Lucio Quinzio Cincinnato, amante dell’agricoltura e della vita agreste, a portare questo vitigno in zona quando si ritirò dalla vita pubblica intorno al 400 a.C.

Dopo aver più volte ricoperto la carica di Console e di Dittatore nella Roma repubblicana (la sua più famosa battaglia fu quella vinta contro gli Equi sul Monte Algido nel 458 a.C.) stanco delle lotte di potere e degli intrighi orditi nella futura Città Eterna, decise di ritirarsi in campagna, a Cori per l’appunto, per dedicarsi alla cura e alla coltivazione delle uve.

Sarebbe stato proprio grazie a lui che iniziò la coltivazione e la diffusione delle due varietà autoctone più antiche dell’Agro Pontino: il Nero Buono appunto e l’Arciprete Bianco (un biotipo del Bellone).

La scelta del luogo non fu casuale in quanto l’areale di Cori, al tempo, si divideva tra le pendici dei Monti Lepini e la insalubre palude pontina, realizzando quindi le migliori condizioni climatiche possibili per la coltivazione dell’uva.

Il Nero Buono di Cori tra passato, presente e futuro.

Intorno a questo vitigno autoctono si è concentrata la produzione di qualità delle tre principali realtà vitivinicole locali, all’insegna dell’innovazione e nel rispetto delle tradizioni.

La prima a credere nel Nero Buono e a vinificarlo in purezza ottenendo un prodotto di elevata qualità, è stata la Cooperativa Cincinnato con un progetto iniziato nel 1995 e oggi ottimamente rappresentato dall’ “Ercole”.

Nata nel 1947, dalla volontà di alcuni agricoltori coresi, oggi è una moderna cantina che raggruppa 130 soci i cui terreni coprono una superficie di 550 ettari, dislocati tra le colline attorno a Cori.

Ferventi sostenitori degli autoctoni del luogo hanno da sempre affiancato al Nero Buono, anche il Bellone (nelle versioni fermo e spumante metodo classico).

Marco Carpineti che dal 1986 mantiene saldamente le redini della azienda che porta il suo nome, utilizzando una struttura moderna e all’insegna della continua innovazione visto che lavora biologico già dal 1994.

Supportato dai figli Paolo e Isabella, Marco ha dato vita a diversi progetti tra cui l’Apolide, il primo Nero Buono in purezza dell’azienda (2007) e il Kius – un Metodo Classico Brut fatto con uve Bellone, un Extra Brut con Nero Buono e la new entry “Pas Dosé” sempre da Nero Buono vinificato in bianco.

Li coltiva in tre vigne e la sua idea è creare un marchio per ognuna di esse.

La passione per l’agricoltura biologica si riflette anche nella scelta di lavorare la terra con i cavalli al posto del trattore.

Per finire, la famiglia Ferretti, da un paio di secoli coltivatori di uva ed olive con l’azienda Pietra Pinta.

Oggi Cesare e Francesco e la nuova generazione della famiglia rappresentata da Bruno, per mantenere quella che è sempre stata la politica aziendale (tutela della qualità e conservazione dell’ambiente), gestiscono l’azienda utilizzando tecnologie e mezzi all’avanguardia, ma seguendo i metodi della coltivazione biologica e tradizionale.

I vigneti di Nero Buono sono distribuiti su pochi ettari di colline laviche e terreni vulcanici, ad altitudini fra 75 e 300 metri e danno vita al “Nero Buono” e al “Colle Amato”.

La Strada del Vino di Latina

Parlando della rinascita del Nero Buono è giusto citare anche un’importante iniziativa che quest’anno spegne le sue prime dieci candeline: La Strada del Vino di Latina.

Nasce infatti nel 2010 proprio a Cori e presenta oggi diversi percorsi turistici: quello sensoriale nelle cantine pontine, ma anche quello tra vino, cultura e gastronomia.

Ad oggi è la Strada del vino più lunga e articolata d’Italia con i suoi oltre 100 km di percorso complessivo.

Partendo appunto da Cori, si prosegue per Cisterna, Sermoneta, Sabaudia, San Felice Circeo e si termina a Terracina nel magnifico Golfo di Gaeta.

Sono ben 5 le DOC attraversate dalla Strada: Cori DOC, Castelli Romani DOC, Aprilia DOC, Circeo DOC e Moscato di Terracina DOC.

Il percorso si snoda tra colline, pianure, coste sabbiose e rocciose, parchi, laghi, borghi medievali e città moderne.

Un tracciato dove la ricchezza artistica e storico-culturale si lega a quella enogastronomica, formando un itinerario di grande interesse e piacevolezza.

Latina era l’unica provincia del Lazio a non avere una “strada del vino”, nonostante i primati raggiunti in questo ultimi vent’anni nel settore dell’enologia e le eccellenze gastronomiche del suo territorio.

La realizzazione è partita su iniziativa dei principali produttori vinicoli coresi i quali, da anni, credono fermamente nel valore dell’enoturismo e vogliono fare della qualità dei vini prodotti e dell’accoglienza offerta, i loro principali punti di forza.

Un plauso quindi agli organizzatori e ai promotori di questo progetto, visto che mai come in questo momento tutti gli strumenti idonei a fare “sistema” nel comparto del vino (ma anche in quello del turismo) devono essere meritevoli di attenzione e considerati strategici per affrontare e superare questo periodo di crisi e di ri-partenza.

Come si presenta nel calice
Il Nero Buono tradizionalmente è stato usato come vino da taglio, soprattutto nella DOC rossa dei Castelli Romani, tanto che a volte veniva addirittura descritto come uva ‘colorante’ (usata nell’uvaggio per rinforzare il colore del vino, essendo molto ricca di antociani).

La sua rivincita però è ormai consolidata e, almeno nel suo areale di provenienza, i migliori produttori ne hanno realizzato diverse espressioni in purezza che hanno raggiunto la doppia cifra, dall’uscita della prima annata.

Il vino presenta generalmente i più ampi sentori di frutti di sottobosco croccanti e maturi, ha un buon corpo, una vivace acidità e un palato avvolgente sorretto da una godibile alcolicità.

La mineralità scura e profonda, tipica di questi terreni vulcanici e tufacei, ne rappresenta il legame forte con questo territorio.

Il passaggio in barrique che alcuni produttori applicano fa apparire note speziate al naso e ammorbidisce i giá vellutati tannini.

Quando vinificato con passione il vino mostra una buona tendenza ad un elegante invecchiamento con lo sviluppo di note di liquirizia e cacao.

Le moderne versioni sembrano concedere il meglio della loro maturità dopo 7-8 anni dalla vendemmia.
Forse il vino non presenta la profondità e il carattere di vitigni più famosi e blasonati ma sicuramente difende ottimamente la schiera degli autoctoni di cui i produttori (e appassionati) d’Italia dovrebbero fortemente andar fieri, visto che rappresenta la nostra unicità.

Un assaggio di…

Ercole 2012 – Cooperativa Cincinnato (13,5%)

Il ventaglio olfattivo offre un naso fresco, dolce, dove si riconosce la ciliegia, la mora, frutti neri maturi e la violetta.

Dopo qualche minuto di attesa appaiono il cuoio, le spezie, le erbe aromatiche selvatiche, la liquirizia, l’umami che ingrandiscono il quadro di un naso piacevole ed equilibrato per chiudere con aromi di cioccolato e una vivace nota balsamica,

L’assaggio rotondo rilascia una piacevolezza di beva nella quale si avverte molto bene l’acidità seguita da tannini vivi ma non invadenti.

Il profilo minerale fatto di lievissimi sbuffi solfurei, al principio nasconde i fiori e i piccoli frutti neri che marcano il Nero Buono di queste zone. Corroborante la sapidità che allunga la persistenza.

Una bella espressione davvero sebbene l’annata da queste parti non sia stata proprio esaltante.

Colle Amato 2011 – Azienda Pietra Pinta (13,5%)

Brillante alla vista, di un colore rubino intenso al naso rivela prima note erbacee e di frutto rosso ma anche una leggera nota di cacao amaro.

Alla rotazione emerge più prepotente il frutto rosso, l’amarena quasi sotto spirito e frutti di bosco assieme ad una nota terrosa, di humus.

Il fruttato si percepisce anche in bocca con freschezza ben integrata che sorregge il sorso sapido e minerale con un tannino che riporta alla mente la liquirizia.

Riemerge la nota di cacao, poi si apre al palato, è sanguigno su substrato di fiori appassiti, la persistenza aumenta grazie al tannino che si allunga con le sue sensazioni ancora un po’ amaricanti, la sapidità e la freschezza sono ben legate anche se non equilibrano del tutto il sorso.

 Apolide 2010 – Azienda Marco Carpineti (14%)

Il nome “Apolide” è segno di una lunga diatriba con il Ministero (e le istituzioni europee) che da anni impediscono l’inserimento del toponimo geografico nel nome del vitigno.
Alla vista si presenta rosso rubino profondo, con qualche riflesso aranciato, ma comunque molto brillante.

Vino corposo dal respiro balsamico di eucalipto ed erbe di campo, fieno greco, accenti brulé di pane tostato e legna arsa, nitidi sentori di amarena sotto spirito e prugna, con note leggermente evolute.
All’assaggio colpisce un’acidità accentuata e un gusto piuttosto pieno ma equilibrato grazie ai tannini di pregevole fattura.

La sensazione tattile è quella di un vino impegnativo, corposo, fruttato, ferroso; ricco di materia e di potenziale ancora.

Apolide di nome ma non di fatto è senza dubbio figlio di questa terra!

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2 risposte

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Andrea Donà

Andrea Donà

Attraverso il mio blog non racconto solo di vino ma anche storie di uomini e di umanità, di sogni e di speranze, di idee visionarie e di grandi intuizioni.

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