Botte di Vino

Verticale “sediziosa” di La Tour a Civitella (by Sergio e Giuseppe Mottura)

Tempo di lettura stimato: 4 minuti

Quanto conta l’annata per il valore complessivo di un vino? Tantissimo. Un assioma presente nel titolo di migliaia di articoli e trasposto in tutte le sue sfumature, nelle pagine appassionate o didattiche di centinaia di libri che trattano la materia del vino tout court. Ciò è ovviamente vero.

E quanto contano la composizione dei suoli, la giacitura dei vigneti, il numero delle ore e l’intensità della luce solare, il regime agronomico in vigna e l’approccio enologico in cantina? Ancora tantissimo.

Tutto rigorosamente scientifico e noto? Prevedibile e pianificabile? Nemmeno per idea. Esiste un punto di discontinuità, una variabile dal comportamento ignoto che rende l’inferenza del ragionamento umano, imprevedibile.

Capita che una mattina di aprile, dopo un notturno viaggio di ritorno dal Portogallo, decida di sfidare la pioggia primaverile che per fortuna ancora cade sulla già troppo asciutta città eterna, per raggiungere un’adunata quasi “sediziosa”, riunita al Wine Bar Trimani, per un’occasione importante, direi unica: la verticale di La Tour a Civitella.

Chi è e cosa rappresenti Sergio Mottura (e suo figlio Giuseppe) nel panorama enologico nazionale e soprattutto regionale è cosa arci nota, per cui non mi ci soffermerò più di tanto.

Ma sulla potenza del messaggio che una verticale di questo tipo, invece, è in grado di trasmettere, quello si, vorrei provare a raccontarlo da spettatore presente, onorato e lusingato dell’invito (un grazie infinito va ovviamente al Direttore Macchi).

Un bianco italico può invecchiare bene? È, questi, in grado di resistere all’incedere incalzante del tempo ed evolvere migliorandosi e arricchendosi?

Possibili riposte: si, no…dipende.

Per me è ovviamente SI. Le ragioni di chi ancora è convinto che un bianco nostrano si debba bere nell’annata in corso e per qualche intorno temporale positivo ma piccolo a piacere, hanno i minuti contati.

Citando Roberto Giuliani, presente anch’egli alla verticale, chi pensa che un bianco abbia vita breve “Ha una credenza corrosa dai tarli”.

Ma fino a pochi decenni fa, quanti avrebbero messo la proverbiale mano sul fuoco per sostenere che un bianco del bel paese potesse raggiungere, integro, i 25/30 anni? Pochi.

E quanti avrebbero rischiato di progettarlo, poi, questo bianco longevo? Ancora meno.

Per fortuna nel Lazio, di uomini illuminati che hanno fatto questa scommessa con la natura, ci pregiamo di averne almeno due: uno è Sergio, l’altro è di sicuro Antonio Pulcini (God save Colle Gaio).

I loro risultati rappresentano un messaggio potentissimo in questo tragicomico mondo del vino nazionale (e non). Un prima e un dopo. Prima non si immaginava di poterlo fare, ora è certezza.

Scriveva Jules Verne: “Un inglese non scherza mai quando si tratta di una cosa importante come una scommessa.” Forse nemmeno Sergio lo ha fatto.

La verità storica (Giuseppe Mottura docet) racconta di un fortuito incontro a Berlino nel giugno del 1993 tra Sergio, intervenuto colà per festeggiare gli 80 anni di Robert Mondavi (il classico amico della porta accanto) e Louis Fabrice Latour di Maison Louis Latour (un altro signore che si incontra di sovente alla fermata della metro).

Questi, entusiasta dell’energia e vitalità del Grechetto ’92 (solo acciaio) che Sergio aveva portato per l’occasione, gli propone di utilizzare il legno (piccolo) per far evolvere il vino.

Sergio rimane colpito dall’idea e quando Fabrice gli fa recapitare 5 barriques per stimolarlo ulteriormente, il dado è tratto.

A quel punto trovare il nome per un vino teorizzato in terra germanica, realizzato alla francese da un produttore piemontese adottato dalla Alta Tuscia laziale, è cosa banale: 1994 “Latour a Civitella”. 

Et voilà, ecco le annate presenti alla verticale: 2020, 2019, 2016, 2015, 2014 (sì proprio lei), 2011, 2010, 2007, 2006, 2005, 2004, 2002, 2000……e per finire 1997.

Ci siamo quasi ma è doveroso, da parte mia, chiarire il punto di discontinuità della premessa.

Ciò che è presente in questi calici, non ha più etichetta, non ha metriche di riferimento né tanto meno certificato di nascita. I dati chimici sui livelli tartarici, le analisi matematiche sugli andamenti delle temperature stagionali e le statistiche pluviometriche non sono necessarie e si possono accantonare per qualche istante.

Questo liquido non ha storia, è momento, è ora!

Gli appunti sul taccuino servono per fermare quel momento e mai come ora sono le emozioni che guidano l’assaggio.

Rileggerli è il modo migliore per rivivere quegli attimi. Mi piace definirla “la cronologia calligrafica di una sensazione”.

Maneggiare il bicchiere per apprezzare il colore, le nuance, i riflessi brillanti è il modo migliore per pregustare, in religioso silenzio, il preciso momento in cui il nettare entrerà nell’alveo sensoriale percettibile dal naso.

Le componenti odorose scalpitano, pervadono e invogliano alla beva. Prima la lingua, poi l’intero palato.

La forza dell’aria in deglutizione amplifica le sensazioni retro-olfattive, l’ultimo atto di una cavalcata epica. Un incedere quasi wagneriano risuona negli angoli remoti del nostro cervello.

Occorre lasciarsi andare e di questo – spesso sottoutilizzato – organo occorre spegnere il collegamento con l’emisfero sinistro (l’ingegnere) e tirare su il volume di quello destro (il poeta).

Questo è ciò che rileggo…dal mio fidato quaderno.

2014INASPETTATO. Il cavallo da corsa non quotato per pedigree e risultati pregressi che arriva primo al traguardo. Apre su toni vegetali ancora freschi, erbe officinali intense che lasciano spazio a sentore scuri di pietra focaia e acciarino. In bocca l’acidità è corroborante, rapiscono i toni agrumati di lime e cedro canditi. Nessuna traccia di legno…un vento fresco che corre veloce.

2011DIROMPENTE. Frutta secca e toni vegetali giocano amabilmente con il miele millefiori e la salvia. Il palato è gustoso, ampio, sapido, rotondo, la scia minerale è protesa in avanti, allungando prepotentemente l’abbrivio.

2010 – ELEGANTE. Il dorato del liquido si fa intenso e ammaliante. Il naso è un corto circuito di zest e agrumi canditi, nocciola e timo. In bocca è tutto un equilibrio tra grassezza materica e sbuffi di mandorle fresche.

2000 – ACCECANTE. Non solo per come brilla nel calice ma per la disinvoltura con cui irrompe nel naso. Una sinestesia visiva che colpisce l’olfatto: zucchero filato, botrite, cedro candito, piccola pasticceria. In bocca travolge per opulenza e presenza tannica. 23 anni e non sentirli, ci dice, senza timore di essere smentito.

Non me ne vogliano le altre annate (compresa la più lontana, la 1997) che avrebbero meritato, senza dubbio, di essere raccontate in questo articolo se non altro per rimarcare e ribadire quanto un vino del genere sia in grado di trasmettere la propria vitalità, navigando fiero tra le onde del tempo.

Degustiamo con il cuore e la parte più emotiva di noi, liberandoci da preconcetti su tipologie, varietà, annate e altre cose sempre troppo maledettamente serie.

Grazie Sergio, grazie Giuseppe.

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Andrea Donà

Andrea Donà

Attraverso il mio blog non racconto solo di vino ma anche storie di uomini e di umanità, di sogni e di speranze, di idee visionarie e di grandi intuizioni.

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