Botte di Vino

Magnetismo etneo, viticoltura di montagna tra vulcano e mare.

Paesaggi mozzafiato disegnati dalla natura e dall’uomo. Una realtà viticola antica ma enologicamente ancora giovane “fatalmente” attratta da un vulcano, dominus assoluto di questi luoghi.
Tempo di lettura stimato: 6 minuti

Il piacere che un viaggio in aereo, lato finestrino, è in grado di regalarti può dipendere dalle condizioni del meteo o magari da ciò che scorgi con la coda dell’occhio mentre leggi ipnoticamente, per l’ennesima volta, il foglio illustrativo delle emergenze.

Una montagna innevata, una vetta ampia dalla quale si propagano lunghe venature scure e ripide creste ricoperte di neve bianchissima.

Sotto la fusoliera il sole illumina un mare indaco e ceruleo, provocando luccicanti riflessi argentati solcati da barche di pescatori pazienti e natanti girovaghi che si confondono tra le onde, quasi sospesi tra le correnti marine e lo stretto, quello di Messina.

Inizia così il mio viaggio tra i percorsi che l’uomo e la vite hanno disegnato in questo luogo magnetico: l’Etna, “a’ Muntagna” come la chiamano da queste parti.

etna

Approfitto dei pochi minuti di volo per rileggere alcuni appunti di studio che mi riportano ad un Etna vitivinicolo pre fillossera – arrivata qui a fine ‘800 – quando gli ettari vitati rappresentavano il 50% di tutti i vigneti siciliani e il vino non si imbottigliava ma veniva consumato sfuso oppure salpava dal porto di Riposto, nella vicina piana di Mascali, per andare a fare il giro del mondo.

La devastazione causata dall’afide americano fu pressoché totale e risparmiò solo pochi impianti posti su suoli silicei o sabbiosi nei quali alcune piante, innestate a piede franco, hanno resistito fino ad oggi superando abbondantemente il secolo di età.

Giovanni, il mio driver per questo viaggio, mi attende subito fuori gli arrivi nazionali. Ci salutiamo con sincera cordialità e una volta sistemati i bagagli siamo pronti a partire verso la nostra prima destinazione.

Le strade che percorriamo sono strette, sinuose ma scorrevoli, lingue di asfalto che fendono in senso longitudinale il fianco collinare del vulcano ma in realtà lo abbracciano con il loro andamento circolare.

Agili da affrontare se le conosci, poco battute, immerse tra vigneti, sciare di antiche colate laviche, boschi di lecci, querce e castagni interrotti da prati di ginestre e qualche uliveto di Nocellara dell’Etna.

Risaliamo verso Nord percorrendo il versante Est dell’Etna, quello che guarda il mare, attraversando Mareneve, punto di partenza per raggiungere gli impianti sciistici e Linguaglossa, uno dei paesi di riferimento della rinascita enoica etnea.

La mia prima sosta è a Solicchiata, frazione di Castiglione di Sicilia, estremo lembo settentrionale dell’Etna dove mi attende Michele Faro, patron dell’azienda Pietradolce.

Michele è un galantuomo, un signore nella vigna, che ha deciso di realizzare nel 2005 un’azienda dalle fattezze moderne ma improntata al rispetto della tradizione, soprattutto nei vigneti che si trovano ad un’altitudine compresa tra i 600 e i 900 metri.

La filosofia aziendale è chiara: rispettare il territorio recuperando i vigneti più antichi, lasciando fare alla pianta “un po’ quello che preferisce”.

I vini migliori si realizzano da piccole parcelle con viti ad alberello pressoché centenarie, disposte ad arco, con filari terrazzati sorretti da muretti in pietra lavica realizzati a mano con una tecnica che si tramanda da generazioni.

michele_faro

Nemmeno a dirlo, anche tutte le lavorazioni che si fanno in campo sono completamente manuali.

Nella moderna cantina ipogea trovano spazio una vinoteca, con alcune bottiglie di tutte le annate prodotte – la più vecchia è una Archineri Rosso 2007 di cui restano solo 12 bottiglie -, opere d’arte e una sala di meditazione dove l’acqua corrente gorgoglia in una vasca realizzata in pietra vulcanica e acciaio, impreziosita da decine di bolle di vetro soffiato che ricordano la forma dell’acino.

Un luogo dove arte e artiginalità si legano indissolubilmente come due magneti.

I vini più iconici per eleganza e stile sono il Barbagalli Rosso – Nerello Mascalese in purezza realizzato dal vigneto omonimo, in Contrada Rampante, che matura 21 mesi in legno – e il Sant’Andrea (bianco) da vigne di Carricante di 130 anni situate a Milo, contrada Caselle versante Est, che fa una macerazione sulle bucce di oltre 9 mesi.

La tappa successiva è a pochi chilometri, riprendendo la statale e proseguendo in senso antiorario verso il paese di Passopisciaro, altro luogo simbolo della viticoltura locale del nuovo millennio.

Visitare l’azienda Graci è un viaggio nella storia e nella cultura di questi luoghi, impreziosito dalle parole del suo fondatore, Alberto, giovane vignaiolo dall’elegante eloquio che qui ha deciso di realizzare i suoi vini “essenziali”.

La cantina è uno storico palmento della seconda metà dell’800, ristrutturato con grande maestria, in parte occupato dalla struttura produttiva e in parte dagli antichi strumenti per la produzione del vino: modernità e tradizione, magneticamente sempre insieme.

Obiettivo dell’azienda è realizzare vini essenziali e longevi, facili da bere, in grado di emozionare con la loro prorompente energia vulcanica.

I vigneti sono disposti nelle contrade storiche dell’azienda – Arcurìa e Feudo di Mezzo – e in Contrada Muganazzi in un terreno che una volta era di proprietà della famiglia di Ettore Majorana (il celebre fisico amico e collega di Enrico Fermi, la cui scomparsa, nel 1938 a soli 31 anni, è ancora oggi avvolta da un fitto mistero), nei quali sono presenti solo autoctoni etnei: Catarratto, Carricante e Nerello Mascalese.

Durante la cena resto affascinato dalle parole e dai racconti di Alberto ma anche da due dei suoi vini più noti.  

Il primo è l’Arcurìa Rosso Sopra il Pozzo, annata 2016, ovvero un Nerello Mascalese in purezza, vendemmiato il più tardi possibile per coglierne a pieno maturità fenolica, aromi e struttura per un vino verticale ed elegante, solido ma mai “ingombrante”.

Il secondo è il Carricante Arcurìa 2019, tappata con uno speciale sughero che permette al vino di invecchiare senza “disturbi” esterni mantenendo intatte le qualità organolettiche negli anni.

Il mio viaggio sta volgendo al termine, in attesa dell’ultimo approdo mi godo il tragitto che procede di nuovo verso est. Non più il mare alla mia destra ma il vulcano sonnecchioso, che per l’occasione indossa un turbante bianco fatto di nuvole e fumo.

L’ultima tappa è da Salvo Foti che vive e lavora con la sua famiglia in contrada Caselle nel paese di Milo. Qui tra gli amici della piccola comunità si ricordano Franco Battiato e Lucio Dalla.

Unico comune etneo in cui si può produrre l’Etna Bianco Superiore grazie al suolo e al peculiare microclima: 800 metri di altitudine, vigneti equidistanti dal cratere principale e dal mare, indice di piovosità elevato, giornate di sole ridotte e notevoli escursioni termiche in tempo di vendemmia. Niente Nerello Mascalese, che faticherebbe a maturare nei tannini e negli aromi e tanto Carricante.

L’approccio di Salvo – uno dei fautori della rinascita del vino etneo – è semplice: niente meccanizzazione, armonia tra capacità produttiva e biodiversità del territorio, manodopera locale altamente specializzata e fidelizzata negli anni.

Sorride quando mi confida che sebbene sia un modo molto costoso di lavorare è anche l’unico in grado di ridare ricchezza alla comunità e rispettare il dono che questa terra offre.

Salvo ha costruito la sua azienda partendo da un palmento del 1840, realizzato sullo stile dei torcolarium di epoca romana e quando nel 1997 la legge comunitaria li ha messi “fuori legge”, dichiarandoli obsoleti e pericolosi, ha deciso di fare un pò di disobbedienza civile.

Ha rimesso il palmento in sicurezza ed ha continuato a produrci un vino per la famiglia e i suoi collaboratori: “Non vogliamo perdere questa tradizione, oggi non ci sono più maestranze in grado di costruire un palmento fatto di castagno e coccio pesto in pietra lavica”.

Imperdibile l’Aurora, assaggiata nella versione 2020, 90% Carricante e 10% Minella Bianca che dona aromaticità e rotondità. Aromi delicati, intensa sferzata acida e grande pulizia del finale per un vino diverso dalle versioni che vengono realizzate su al Nord, a Passopisciaro e a Linguaglossa.

I due giorni a mia disposizione sono letteralmente volati e sono di nuovo in aereo intento ad annotare alcune frasi che mi ricorderanno questo viaggio.

La prima è un omaggio a questo dialetto e alle tradizioni, “Pista e mutta” cioè pigia il mosto (pista) e poi subito travasalo (mutta), era il vino che i contadini facevano per sé e che potevano bere dopo pochi mesi.

E poi ”E’ il luogo che fa il vino”, concetto facilmente condivisibile da queste parti.
Sull’Etna il vino è solo un ponte che collega storia e cultura, passato e futuro di un luogo che ciclicamente rinasce, nell’ancestrale e perenne lotta di “posizione” tra uomo e vulcano.

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6 risposte

  1. Molto interessante l’analisi del vari cultivar del territorio frutto di una vera passione e indagine accurata. Le caratteristiche uniche del territorio e la lungimiranza dei produttori, consentono una produzione esclusiva, vera ricchezza di questa porzione di terra.
    Leggendo questo articolo viene voglia di degustare un buon bicchiere di vino ovviamente Siciliano.

  2. La descrizione dei vari luoghi e la limpidezza dei racconti fanno rivivere sensazioni del territorio e viene voglia di degustare un buon bicchiere di vino in questo caso Siciliano.

  3. Complimenti Andrea per questo bel viaggio che hai fatto fare pure a noi. Sembra di essere lì con te …..peccato che manca un bel bicchiere di vino di quelli che hai avuto il piacere di assaggiare.
    Ciao

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Andrea Donà

Andrea Donà

Attraverso il mio blog non racconto solo di vino ma anche storie di uomini e di umanità, di sogni e di speranze, di idee visionarie e di grandi intuizioni.

Aforismi sul vino

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